La depressione

Considerata da molti il disturbo peggiore che possa capitare ad un essere umano. Sicuramente questa è la convinzione del depresso, ma anche gli addetti ai lavori guardano alla depressione come ad un disturbo importante, sia per la sofferenza del paziente, sia per il rischio del suicidio (nel depresso è sempre presente), sia per la psicodinamica.

qualcosa

Solitamente la distinzione che si fa nelle depressioni è quella tra “depressione neurotica” e “depressione psicotica”. La prima è considerata “reattiva” ad una situazione di stress, come per esempio la perdita di una persona cara, la seconda è definita “endogena” perché si presenta, certe volte all’improvviso, senza una causa apparente.

Occorre dire, ancora, che ci sono due tipi di classificazione delle “depressioni”. La prima si riferisce a criteri psicodinamici, la seconda è prevalentemente descrittiva. Come si può immaginare, uno dei primi che cercò di spiegare la depressione in termini psicodinamici fu Freud. In “Lutto e melanconia”, egli operò una distinzione tra il generico dolore psichico della persona normale o del depresso neurotico e la disperazione del “melanconico”.

Ma fu Abrahm, qualche anno prima, che fece uno studio sistematico della depressione in termini psicoanalitici. Sull’altro versante, quello della classificazione descrittiva, i criteri valutativi non sempre sono omogenei, soprattutto con riferimento all’origine endogena o esogena della depressione.

In ogni caso, si è abbastanza d’accordo sul fatto che non si può operare una distinzione netta tra depressione neurotica e psicotica:

Prima che si arrivi a capire che cosa costituisce e che cosa provoca il salto qualitativo da un disturbo non psicotico ad uno psicotico saranno necessarie ancora molte ricerche scientifiche e molte intuizioni rivelatrici.

Via via che la comprensione del comportamento umano si arricchisce di nuovi elementi, appare sempre più chiaro che non esiste soluzione di continuità tra lo stato di normalità e quello di disturbo, e fra il disturbo lieve e la totale anormalità.

Bonime, in Arieti (1977)

Ma torniamo alla psicodinamica della depressione.
Una prima cosa che ci sentiamo di poter affermare - fatto questo che ci fa stare in buona compagnia: con Freud, Abraham, Fenichel ed altri – è che il depresso ha bassi livelli d’autostima.

L’affermazione è ovvia perché è d’osservazione comune il fatto che il depresso, non solo non s’incensa, ma, nelle depressioni gravi, si considera addirittura una nullità.

Quando si hanno bassi livelli d’autostima, i bisogni d’appoggi esterni diventano molto forti e, nel caso del depresso, diventano indispensabili.

Il fatto è che il depresso è regredito su posizioni d’oralità, la sua organizzazione psichica si caratterizza per significative posizioni narcisistiche ed ha, quindi, bisogno di supportarsi, investendo sul proprio sé, e di essere supportato dalle attenzioni e dalle cure degli altri. Occorre precisare che il narcisismo non va inteso come “vanità”, ma come solitudine. E’ una condizione psichica che si sperimenta già nella prima infanzia e, in seguito, nella fase adolescenziale.

In queste due fasi evolutive, il bambino non ha ancora trovato l’”oggetto, mentre l’adolescente, avendo disinvestito dai primi oggetti d’amore e non avendone trovati altri, si rivolge verso se stesso utilizzando una modalità adattiva di tipo narcisistico. Se nelle fasi evolutive di cui abbiamo detto, il narcisismo è fisiologico e transeunte, nel depresso la modalità è tutt’altro che adattiva. Il depresso, rivolgendo tutta la sua attenzione e le sue energie sul proprio Sé, tende ad amplificare la sua sintomatologia e ad utilizzare la sua malattia come vantaggio primario e secondario:

  • scarica sui sintomi la sua tensione interna (vantaggio primario)

  • obbliga gli altri ad interessarsi e a prendersi cura di lui (vantaggio secondario)

Naturalmente, con quest’impostazione psicologica, il mondo esterno perde la sua pregnanza, diventa grigio e insignificante. L’unico significato può essere rintracciato nella sofferenza, che dà al depresso,intanto, l'impressione che sta facendo qualcosa per diminuire i suoi misfatti e, poi, lo fa sentire vivo.

Forse a questo punto si è capito che la “colpa” è una variabile importante nella psicodinamica del depresso. Qual è la genesi del senso di colpa? In senso filogenetico, il parricidio primigenio. In senso ontogenetico la formazione dell’istanza psichica del Super-io. Nella notte dei tempi, quando l’uomo viveva in orde selvagge, in lui non c’era coscienza morale: si accoppiava con i consanguinei, non aveva freni inibitori, era regolato dal principio del piacere. Era, insomma, un animale “naturale” in preda agli istinti, senza diaframmi d’alcun tipo, capace di tutto.

Doveva essere così perché l’ambiente in cui viveva era ostile e duro da sopportare. Con il tempo, le sue condizioni di vita migliorarono e, a quel punto, si poté concedere il privilegio della sofferenza morale. L’uccisione del padre lo fece sentire in colpa per la prima volta e, per questo, eresse un totem nel suo villaggio a testimonianza del misfatto, affermando, nel contempo, il tabù del parricidio. Giacchè l’ontogenesi ripete la filogenesi, la stessa vicenda si osserva nella storia d’ogni essere umano. Il bambino inconsciamente desidera la morte del padre e, per questo, si sente in colpa.

Per rimediare e contenere i suoi impulsi ostili, introietta la figura paterna, s’identifica con il padre, erge dentro di sé lo stesso totem e tabù dell’uomo primitivo. L’introiezione del padre e l’identificazione con lui, si configura, in senso psicologico, come Super-io, un’istanza psichica che si definisce come coscienza morale che giudica, assolve e punisce. Come si può immaginare il tipo di coscienza morale, vale a dire, il tipo di Super-io varia da persona a persona. In alcuni è rigido e ipertrofico, in altri tollerante e perfino benevolo. Dipende dalla storia evolutiva del soggetto, dall’evoluzione dei suoi sentimenti.

Se il padre è severo e castrante, il figlio tende ad essere molto ostile con lui e ad introiettare un’imago paterna rigida e punitiva.

Un padre tollerante, invece, stimola e favorisce comportamenti “restituitivi”, di riconciliazione da parte del figlio; questi tende a superare la sua ostilità, ad introiettare un’imago positiva. Il Super-io, in quest’ultimo caso, non è severo, non punisce; giudica ma con elasticità. Si sarà capito, a questo punto, che nel depresso il Super-io è, in alcuni casi, non solo severo, ma addirittura sadico.

La lotta con il padre introiettato, ora, si svolge all’interno del depresso: il padre continua a punire o a disapprovare, alimentando i sensi di colpa del figlio. Osserviamo, di passaggio, che ai fini dell’autostima, la dinamica che stiamo descrivendo non può che essere distruttiva.

E così il depresso si sente in colpa, pensa di non essere benvoluto, di non avere qualità. Una condizione psicologica ed esistenziale davvero pesante. Fenichel, nel suo Trattato di Psicoanalisi, osserva come nei riti totemici in uso in alcune culture primitive il meccanismo dell’introiezione della persona scomparsa è abbastanza trasparente. I banchetti che questi popoli preparano e consumano in occasione della morte di un membro del villaggio, sottendono il bisogno di incorporare il morto, assumerlo in sé, per contenere la perdita, dilazionare i tempi del distacco dalla persona scomparsa. In questo caso il rito esprime vissuti prevalentemente positivi. In altri casi, si può cogliere la paura e l’ambivalenza.

E così, gettare sabbia nella fossa dove il morto sarà posto, esprime la preoccupazione che il morto possa ritornare in vita per vendicarsi delle persone che l’hanno odiato; per questo motivo si mette più materiale possibile tra sé e il morto. La stessa dinamica psichica, osserva sempre Fenichel, si può osservare nell’erezione dei monumenti: più il morto è potente, più pietre si mettono sopra di lui per impedirne il ritorno.

Anche nelle culture civilizzate e differenziate si può osservare il meccanismo dell’introiezione. Reazioni esagerate di bulimia, in seguito alla perdita di una persona cara scomparsa, esprimono la difficoltà ad operare il distacco e, quindi, il bisogno di incorporare il soggetto scomparso per tenerlo in vita dentro di sé. Nell’anoressia il meccanismo è simile ma speculare al primo.

Anche qui si vuole incorporare il soggetto scomparso, ma si temono i propri impulsi orali sadici che potrebbero “divorare” in modo cannibalico il morto. Da quanto abbiamo detto, non viene fuori un’immagine molto positiva del depresso. Bisogna considerare, però, che la dinamica psichica è essenzialmente inconscia, eccessiva ed irrazionale. E tuttavia, come sempre, qualcosa di vero c’è. Il depresso ha realmente odiato la persona scomparsa, quando questa era in vita.

Che poi, poteva avere eccellenti motivi per provare i sentimenti d’ostilità, non modifica l’aspetto logico della questione. La stessa considerazione si può fare nel caso in cui la perdita si riferisce ad un rovescio finanziario, ad una diminuzione del proprio prestigio, insomma, ad una ferita narcisistica.

Anche in questo caso si sperimentano forti sentimenti d’ostilità, questa volta nei confronti della vita, per i quali ci si può sentire in colpa. Alla fine, il depresso non solo afferma la sua indegnità, la considera anche vera. E se le affermazioni e considerazioni che egli fa non sono del tutto infondate, si potrebbe pensare che il depresso meriti il giudizio di valore negativo che egli esprime nei propri confronti.

E, per la verità, se indaghiamo la psicodinamica del depresso, notiamo che essa si caratterizza per aspetti d’ostilità, competitività, tendenza a manipolare e rifiuto a concedere gratificazioni agli altri. In un’ottica culturalista, Bonime, autore già citato sopra, considera la depressione una vera e propria prassi.

Egli vuole dire che quello del depresso è “un modo deliberato di entrare in relazione con gli altri”. L’autore di cui stiamo parlando, in modo arguto ed ironico, osserva che il depresso, piangendo i suoi mali, spesso ottiene una serie di vantaggi:

egli può cominciare con l’ideare una storia di dissesti finanziari, costellandola di toni che variano dal coraggio alla rassegnazione fino alla disperazione, finché si fa persuadere ad accettare un prestito; oppure si mostra in un angoscioso stato di solitudine nella tempesta delle tribolazioni coniugali finché una donna non lo prega, letteralmente, di dividere il letto con lei.
(ibid.).

Potremmo continuare, ma preferiamo fermarci qui per non ingenerare equivoci. Il depresso può avere tutti i difetti di questo mondo, ma riteniamo che non sia proprio il caso di esprimere giudizi di valore nei suoi confronti. In questa “riflessione” noi abbiamo cercato di conoscerlo e farlo conoscere. E abbiamo tenuto a mente l’aforisma di Baudelaire: Tout comprendre, tout perdonner

In questo senso forse dobbiamo attivare comportamenti restituitivi, nell’accezione kleiniana, nei confronti del depresso. Che cosa bisogna restituire al depresso? Tante cose.

Forse, soprattutto, un più giusto sentire nei suoi confronti. Il fatto è che il depresso, con la sua tendenza a non farsi influenzare, rimane piuttosto impermeabile agli sforzi degli altri, terapeuti compresi, di aiutarlo. Di qui, il sentimento di collera impotente dei suoi familiari o amici, l’impazienza infastidita del terapeuta che si sente frustrato nei suoi bisogni di successo nella terapia.

Nel depresso il senso di morte è abituale compagno di viaggio, esito desiderato e temuto. Questo desiderio di morte esprime, ad un tempo, collera e incapacità a vivere. La collera è secondaria al risentimento di chi è rimasto deluso nelle sue aspettative affettive, vale a dire, di non essere stato amato abbastanza; l’incapacità a vivere è il tentativo fallito di recuperare la propria dignità, all’interno delle proprie miserie, con l’esercizio della sofferenza.

Nel depresso il senso di morte è abituale compagno di viaggio, esito desiderato e temuto. Questo desiderio di morte esprime, ad un tempo, collera e incapacità a vivere. La collera è secondaria al risentimento di chi è rimasto deluso nelle sue aspettative affettive, vale a dire, di non essere stato amato abbastanza; l’incapacità a vivere è il tentativo fallito di recuperare la propria dignità, all’interno delle proprie miserie, con l’esercizio della sofferenza.

Il timore della morte, infine, è annichilimento totale, senza riserve e confini temporali; un annichilimento che va oltre la vita, che non si risolve con il riposo eterno, anzi continua dopo la morte, definendo così e per sempre la propria condizione esistenziale.

Laura Cappilli


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